Aumento delle temperature, inquinamento da rifiuti industriali, plastiche: sono tutte parole che avvertono della pressione a cui sono sottoposti gli ecosistemi marini, ormai da decenni. Tra attività umane e cambiamenti climatici, molte specie marine che popolano gli oceani stanno lottando per sopravvivere e sono più minacciate che mai. Ma una delle ragioni del collasso degli ecosistemi marini e del declino di tante specie marine, viene ancora troppo poco menzionata: la pesca intensiva e gli allevamenti industriali.
Gli allevamenti di pesci sono ancora poco conosciuti rispetto al loro equivalente sulla terraferma, gli allevamenti di carne (polli, bovini, ecc.). Eppure, il settore dell’acquacoltura (attività di allevamento di specie destinate al consumo) è in piena espansione; i pesci sono esposti a trattamenti simili e gli impatti ambientali non sono di poco conto. Se l’acquacoltura è l’industria alimentare che cresce più rapidamente (con un aumento quasi raddoppiato nell’ultimo decennio: 91.3% secondo SoMFi), è perché l’Unione Europea ha puntato sul suo sviluppo per aumentare la produzione di cibo. Questa logica di rivolgersi agli animali acquatici per produrre di più ha portato l’acquacoltura a diffondersi più della pesca libera; secondo la FAO, nel mondo vengono allevati tra i 40 e i 120 miliardi di pesci.
La tendenza non fa che confermarsi attorno al Mediterraneo e al Mar Nero; nel 2021, la produzione proveniente dall’acquacoltura ha raggiunto 3.299.000 tonnellate (FAO, 2023). In questo fenomeno di portata globale, l’Italia ha rappresentato l’11.5% -dell’acquacoltura mediterranea nel 2021, collocandosi al quarto posto con una produzione di 95.424 tonnellate (FAO, 2023). Va aggiunto che l’Italia è leader nella molluschicoltura a livello europeo. Circa 800 impianti sono presenti sul territorio italiano e contribuiscono al 40% della produzione ittica nazionale. Vengono prodotte principalmente cinque specie diverse: trota, spigola, orata, mitili e vongole veraci, anche se le specie prodotte in Italia sono una trentina in totale.
Nonostante ciò, la maggior parte del pesce consumato in Italia è proveniente dall’estero. Questo “nuovo” modello produttivo che mira a intensificare l’acquacoltura sostenibile in linea con l’approccio della “Blue Transformation” delle Nazioni Unite, purtroppo non permette di contrastare la pesca eccessiva, dal momento che la pesca industriale – che non tiene conto degli stock ittici necessari alla
riproduzione – punta anche alla produzione di mangimi a base di farina di pesce.
A differenza della pesca tradizionale quindi l’acquacoltura influisce su molti aspetti dell’ecosistema marino e potrebbe avere conseguenze preoccupanti per il nostro pianeta. Concentrare una densità troppo elevata di specie rispetto alla superficie non è privo di pericoli: perdita della biodiversità, catena alimentare turbata, inquinamento. La buona salute dei pesci è a repentaglio a causa dell’aumento del rischio di contaminazione. L’inquinamento cresce a causa di una sovrabbondanza di mangimi e di rifiuti ittici che
finiscono nel mare circostante, degradando il fondale marino. Gli esempi non mancano e lo squilibrio degli ecosistemi marini è in pericolo. Le ripercussioni non sono solo ambientali: con il settore dell’acquacoltura che esige sempre più mangimi, intere economie locali rischiano di essere distrutte, portando i pescatori disoccupati a emigrare.
finiscono nel mare circostante, degradando il fondale marino. Gli esempi non mancano e lo squilibrio degli ecosistemi marini è in pericolo. Le ripercussioni non sono solo ambientali: con il settore dell’acquacoltura che esige sempre più mangimi, intere economie locali rischiano di essere distrutte, portando i pescatori disoccupati a emigrare.
Molti fattori mettono quindi in discussione la sostenibilità di questi allevamenti industriali, in particolare proprio la produzione massiccia di farine di pesce per produrre mangimi da destinare agli allevamenti industriali. Se non vogliamo correre il rischio di vedere gli oceani svuotarsi della loro fauna, è importante interrogarsi sulle possibili pratiche distruttive dell’acquacoltura, ma anche sulle nostre scelte alimentari, che devono essere più rispettose dell’ambiente per meglio preservare le risorse marine. In tale contesto e nell’ottica di capire se questo modello di produzione vada di pari passo con l’implementazione di un sistema alimentare più sostenibile, Francesco De Augustinis ha realizzato “Until the end of the world”, un documentario che indaga l’industria dell’acquacoltura attraverso il mondo. “L’idea del documentario è di raccontare e mettere in collegamento le vicende di diverse comunità che in diverse parti del mondo stanno combattendo contro l’espandersi degli allevamenti di pesce”, racconta De Augustinis.
Slow Food ha preso in carico il tema della tutela dei mari, organizzando a partire dal 2005 Slow Fish a Genova, l’unica manifestazione dedicata al mare e ai pescatori della piccola pesca e ha incluso tra il progetto Presidi alcune comunità che
proprio dal sistema della pesca industriale, sarebbero state cancellate per sempre.
Il documentario “Until the end of the World” di Francesco De Augustinis verrà proiettato in anteprima giovedì 15 febbraio presso l’Auditorium del MAXXI – Museo Nazionale delle arti del XXI secolo di Roma alle ore 18:00 a cura di Slow Food Roma. Segue riflessione con il regista, Fabio Ciconte (presidente Consiglio del Cibo di Roma) e Francesca Rocchi di Slow Food.
Slow Food ha preso in carico il tema della tutela dei mari, organizzando a partire dal 2005 Slow Fish a Genova, l’unica manifestazione dedicata al mare e ai pescatori della piccola pesca e ha incluso tra il progetto Presidi alcune comunità che
proprio dal sistema della pesca industriale, sarebbero state cancellate per sempre.
Il documentario “Until the end of the World” di Francesco De Augustinis verrà proiettato in anteprima giovedì 15 febbraio presso l’Auditorium del MAXXI – Museo Nazionale delle arti del XXI secolo di Roma alle ore 18:00 a cura di Slow Food Roma. Segue riflessione con il regista, Fabio Ciconte (presidente Consiglio del Cibo di Roma) e Francesca Rocchi di Slow Food.
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