Sembrava finita un’epoca nella seconda metà del novecento, quella del “caporalato” nella campagna pontina, come in tante parti d’Italia, come era sparita per sempre la plaghe della palude pontina. E invece oggi è tornata, più forte che mai. Diversa ma uguale allo stesso tempo. Comunque terribile e inaccettabile.
Una volta i caporali della “campagna romana e pontina” delle paludi pontine, agli ordini dei “Mercanti di campagna”, reclutavano i “Guitti”, cosi come chiamavano i più poveri di quel contesto sociale, come ci ricorda Sibilla Aleramo nel primo decennio del ‘900. Oggi, mutatis mutandis, i nuovi Guitti vengono reclutati da nuovi caporali, soprattutto agli ordini della criminalità organizzata, per di più tra gli immigrati. Insieme ad altre etnie di stagionali, agli immigrati sbarcati dall’africa ecc. è soprattutto la grande comunità degli indiani Sikh presente nella compagna pontina. Quasi trentamila immigrati indiani dell’Agro Pontino, oramai quasi in pianta stabile. I “nuovi guitti” che come allora vivono in forma di semi schiavitù, in condizioni impensabili per una civiltà democratica nel secondo millennio.
Raccontano le pagine oramai antiche di un libro poco conosciuto, scritto da Anna Fraentzel Celli, con uno pseudonimo, che racconta del territorio pontino degli anni pre-bonifica, storie che quasi sembrano scritte oggi ma che invero sono dei primi anni del ‘900. Scrive di un uomo, un Guitto che dice: “mi vendettero appena ragazzino ad un caporale…[…]Noi dovevamo lavorare, prendevamo molte bastonate, mangiavamo poco…[…]. Ricevevamo una lira di salario, ma il denaro lo prendeva il caporale e ce ne dava pochissimo…[…] E che dovevamo fare? I caporali sono gente potente. C’è il caporal maggiore, il caporale e il caporaletto e tutti non vogliono far niente e vivere alle spalle dei poveri “guitti”. Se qualcuno si lamenta, non trova più lavoro, perché tutto il lavoro passa per le mani dei caporali.”
Eppure le cronache di questi anni, raccontano purtroppo storie terribilmente simili. Non più italiani come allora ma soprattutto stranieri (secondo le stime sono l’80%); uomini, donne e bimbi venduti, sfruttati e maltrattati.
«Io sono Sikh – dice Rajinder Singh, bracciante nelle campagne del Comune di Sabaudia – ma non porto il turbante perché il padrone non vuole. Il mio padrone mi deve 40.000 euro. Credo che non li avrò più ma ho bisogno di quei soldi. Lavoro in una cooperativa agricola vicino Sabaudia, il lavoro è troppo duro e i soldi sono pochi. Prendo solo 400 euro al mese e ogni sera prego perché il caporale mi chiami per il giorno dopo…».
Dall’Agro Pontino a quello romano, da alcune aree agricole della Toscana, dell’Emilia-Romagna e del Piemonte, alle campagne lombarde e venete, persistono, nonostante la recente legge anticaporalato (legge 199/2016), pratiche, interessi e sistemi di produzione fondati sullo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, premessa peraltro di sistemi mafiosi di carattere nazionale e internazionale. Secondo il rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), il lavoro irregolare in Italia riguarderebbe 400.000/450.000 lavoratori/ici agricoli esposti al caporalato, di cui più di 180.000 impiegati in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Molti di questi lavoratori e lavoratrici si trovano in una condizione che possiamo definire di schiavitù rinnovata.
Una nuova forma di schiavitù, non immaginata o per sentito dire, ma addirittura vissuta con coraggio e poi descritta da testimoni come Marco Omizzolo, un cittadino pontino, che per qualche anno si è “confuso” tra di loro, lavorando nei campi con e come loro, dormendo con loro, alzandosi all’alba per raggiungere il posto di lavoro, in bicicletta, al caldo o al gelo, per dieci e più ore di duro lavoro agricolo, sottopagato.
Ci ricorda Marco come il 06 giugno del 2020 un ragazzo indiano di appena 25 anni è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento in un noto residence nel Comune di Sabaudia, residenza di molte famiglie indiane in gran parte impiegate in attività di bracciantato agricolo. Joban Singh, questo il suo nome, ha deciso di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, al quale doveva ancora circa 9.000 euro, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità come da decreto del governo.
Si è trattato del tredicesimo caso di un lavoratore indiano gravemente sfruttato che si è suicidato in provincia di Latina.
Non si può tacere e noi di Slow Food Latina e Lazio non intendiamo farlo, per quello che possiamo. Pe questo abbiamo voluto conoscere, chiedendo e portando la testimonianza di Marco Omizzolo all’ultimo Congresso Nazionale di Slow Food Italia a Montecatini, perché è fondamentale sapere di cosa parliamo. Sapere come poter intervenire con tutti i mezzi possibili e presto, per contrastare questo sistema perverso. A noi di Slow Food il compito a noi più consono e possibile rispetto alla nostra esperienza, di educare le persone al consumo e alla spesa consapevole, di supportare il piccolo agricoltore, l’impresa individuale che, come da dati del CREA, “seppur in contrazione, rappresentano la forma giuridica prevalente, …Lazio”. Sono loro che spesso conservano la biodiversità del cibo, ricca di saperi e sapori che vanno scomparendo, schiacciati da una produzione agroalimentare industriale che li mette sempre più in difficoltà. Mentre è spesso nelle forme di gestione societarie di capitali e delle cooperative agricole, che si definiscono le attività illegali di caporalato e sfruttamento, senza purtroppo eccezioni da chi fa agricoltura sostenibile come si è evinto da attività giudiziarie passate ed in corso. Vogliamo quindi fare considerando contemporaneamente il “locale”, con progetti educativi rivolti ai consumatori, ma pure il “nazionale” appoggiando e sostenendo le azioni più generali, come quella della legge in fase di approvazione per l’abolizione delle aste a doppio ribasso imposte dalla Gdo che si collega anche alla debolezza delle Organizzazioni dei Produttori (Op), che porta all’incapacità di tutelare in modo adeguato gli interessi dei piccoli produttori, diminuendone il potere contrattuale e causando una sempre maggiore pressione da parte delle aziende di grande distribuzione. Azioni nazionali tese ad applicare completamente la legge contro lo sfruttamento (legge 199/16), quelle per le riforme legislative radicali (delle migrazioni, dell’accoglienza, della cittadinanza e del lavoro) e una migliore macchina dei controlli, performante e rapida, insieme ad un patto civile tra imprese e imprenditori virtuosi e nella legalità, lavoratori e istituzioni.
Nel nostro territorio poi non possiamo non cercare alleanze con altri soggetti, apprezzare e condividere progetti di legalità come quello intitolato proprio “Dignità–Joban Singh”di “Tempi Moderni” che prevede l’avvio di una serie di sportelli legali, di assistenza sociale e formazione, organizzati con l’ausilio di “Progetto Diritti”, nel territorio pontino. Continuare a sviluppare i nostri progetti come i Presidi, l’Arca del Gusto, i Mercati della Terra, Slow Food Travel e tanti altri che come Slow Food portiamo avanti per tutelare la fondamentale biodiversità agroalimentare e la salute delle persone e del pianeta. Azioni che passano necessariamente da processi di contrasto alle diseguaglianze e al cambiamento climatico, fattori decisivi rispetto al fenomeno delle migrazioni per necessità.
Concludo infine con un’ultima testimonianza significativa, sempre riportata da Omizzolo: “Mattina in tribunale per accompagnare un lavoratore senegalese che ha denunciato il suo caporale. I due si sono incontrati in aula. Il primo lo ha fissato dritto. Il secondo aveva lo sguardo basso. “L’ho fatto perché la mia libertà vale più dei soldi del padrone” mi ha detto il bracciante che ora lavora in regola per una azienda agricola marchigiana.
Roberto Perticaroli
[1] Sibilla Aleramo; Note di Taccuino, 1938 – A due passi da Roma. Capanne di paglia, come cumuli di strame. Vivono in capanne, senza pavimento, sembrano anche loro di fango, guardano attoniti, bimbi e vecchi, al confronto quelli dell’ambulatorio sono dei principi, le capanne stanno fuori d’ogni strada, ci si va per un sentiero, quasi due ore a piedi, è una specie di villaggio, tre, quattrocento persone, e dicono i Celli che ve ne son tanti altri cosi sparsi nella Campagna, tutt’intorno a Roma e giù giù sino alle Paludi Pontine, aggruppamenti di veri tukul, abbandonati, senza medico, senza scuole, e mi guardavano come se veramente fossi capitata in Africa, scendono dalla Sabina, dalla Ciociaria, e dagli Abruzzi, tornano al loro paese soltanto da luglio a settembre, quando la malaria infierisce più acuta. Il terreno appartiene a un principe. Li chiamano guitti. Dormono accatastati, nel fumo, nel puzzo. Oggi c’era il sole. Ma quando piove, come possono vivere li, come?…
Ad un tratto, dietro un rialzo di terreno, un gruppo di capanne si profilava: dieci, venti, cinquanta. Bimbi e donne si sporgevano dalle basse aperture, attoniti, con occhi cisposi, ci tastavano le vesti. Nessuno giungeva mai sin là. Nessuno, salvo l’arruolatore (il “caporale”) e l’agente delle tasse. Neanche il prete, neanche per i morti, che venivano portati a spalle al cimitero più prossimo, a dieci, dodici chilometri. Né medico, né levatrice. E grandi e piccini, quasi tutti malarici e, tutti, analfabeti.
[2] M. L Heid; Uomini che non scompaiono, 1942 – L’uomo intanto continuava a parlare:- I miei genitori adottivi mi vendettero appena ragazzino ad un caporale, come fecero pure con i loro figli. Per ogni ragazzo prendevano quaranta lire all’anno. Noi dovevamo lavorare , prendevamo molte bastonate, mangiavamo poco e a Natale ci davano un paio di cioce nuove. Com’ era bello allora quando ci prendevamo la febbre e potevamo andare all’ospedale! C’era del latte e pane bianco ed ogni giorno minestra calda e maccheroni e carne ed uova; il chinino che ci davano lo nascondevamo e non lo prendevamo, così potevamo restare più a lungo in ospedale. Tornati al paese lo vendevamo caro quando tornavano gli operai dalla campagna con la malaria.
-Dovevate essere delle birbe!
– No Signorina era la troppa fame! Poi passai alla prima categoria dei monelli , come si chiamava la squadra dei ragazzzi. Solo le donne e i vecchi fanno parte della seconda, quella dei bastardi. Ricevevamo una lira di salario, ma il denaro lo prendeva il caporale e ce ne dava pochissimo, in compenso ci dava da mangiare farina di granturco avariata e la domenica code di baccalà.
-ma come mai vi lasciavate far questo?
-E che dovevamo fare? I caporali sono gente potente. C’è il caporal maggiore, il caporale e il caporaletto e tutti non vogliono far niente e vivere alle spalle dei poveri “guitti”. Se qualcuno si lamenta, non trova più lavoro, perché tutto il lavoro passa per le mani dei caporali.
[3]Marco Omizzolo; Sotto padrone, uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Feltrinelli, 2019
[4] Marco Omizzolo: “Con alcuni di questi uomini e donne io con-vivo e cammino da oltre quattordici anni. Sono persone che non ho solo osservato e intervistato. Non ho solo cenato con loro, stretto le loro mani o bevuto un caffè nelle loro abitazioni. Sono stato uno di loro. Ho vissuto la loro condizione, lavorato con loro nelle campagne italiane, ho subito tutta la gamma delle violenze possibili agite da padroni, caporali, sfruttatori, impiegati corrotti, e tutte le contraddizioni delle norme, procedure e prassi vigenti, le retoriche razziste e le aggressioni di chi pensa di essere più uomo degli altri solo perché ricco, occidentale e bianco. Ho vissuto con gli ultimi, gli immigrati sfruttati e schiavizzati dai padroni italiani, costretti a subire violenze, soprusi e truffe in un Paese che dovrebbe essere fondato sul lavoro. Sono coloro che alcuni chiamano scorrettamente invisibili.
Sono infatti invisibili solo agli occhi di chi non vuol vedere, non si interessa, non partecipa a ciò che accade nel mondo, partendo da quella parte di mondo in cui egli stesso vive. Ero in provincia di Latina, ad appena cento chilometri da Roma e per circa due anni ho vissuto dentro la comunità indiana, ininterrottamente.
Ho dormito dentro il loro tempio, a Sabaudia, insieme ad altre decine di uomini di origine indiana, soprattutto sikh. Con loro mi alzavo alle cinque del mattino, per inforcare, vestito con abiti consumati, vecchie biciclette e, sotto il sole agostano o la pioggia di gennaio, dirigermi verso varie aziende agricole per lavorare sotto padrone.”