Partiamo dal cibo per attivare il cambiamento
Prepotenza, errore, illegalità. Sembrano raccolti in questa triade i motivi per cui presto, molto presto, assisteremo alla più grande estinzione di massa delle specie degli ultimi 65 milioni di anni. Non parliamo di insetti, né di uccelli, o di suini, ovini e bovini. Parliamo dei pesci che popolano i nostri mari, esseri viventi imprescindibili per la sostenibilità dell’intero pianeta: minacciati dalla prepotenza estrattiva ed inquinante delle attività umane nell’ambiente marino, dai metodi errati e distruttivi con cui si effettua la pesca nei mari, dall’illegalità di un’industria ittica senza etica spinta dal puro profitto. A molti lettori non sarà sfuggito il recente documentario Seaspiracy che nel clamore di polemiche e consensi ha riportato all’attenzione pubblica il tema dello sfruttamento degli oceani da parte dell’uomo. Un argomento spesso “sacrificato” per dar voce ad altre – seppur importanti – questioni ambientali, ma che rimanendo nel silenzio rischia di allontanare il consumatore da una chiara percezione dei danni provocati dall’industria della pesca. Se il Fish Dependence Day, la data che identifica simbolicamente la fine per l’Europa di pesce, molluschi e crostacei, ogni anno anticipa la data di diversi giorni rispetto al periodo precedente, forse è il caso di cominciare a porsi una domanda.
A partire da oggi, che è la Giornata Nazionale del Mare.
L’overfishing perpetrato negli oceani dagli anni ’50 ad oggi ha portato al collasso il 29 per cento delle specie ittiche commerciali in tutto il mondo. Anche il nostro Mar Mediterraneo, in cui ad oggi l’88% degli stock ittici monitorati risulta sovrasfruttato, tra l’elevato livello di inquinamento e una disomogenea governance delle sua acque, non appare in buona salute: in Italia contiamo 8800 km di coste e appena 25 aree marine protette per un ecosistema marino destinato al tracollo a causa della dispersione di plastiche e microplastiche in mare (si stima siano almeno 250 miliardi i frammenti di plastica sparsi per tutto il Mediterraneo, Blue Factory di Marevivo 2019), del mancato rispetto delle regole da parte dei pescherecci e delle cattive abitudini alimentari di insaziabili consumatori di tonno rosso, salmone e pesce spada. Solo nell’anno della pandemia, in Italia si è registrato un incremento del tonno in scatola del 33,6% (ricerca Doxa per Ancit, 2021).
Comportamenti che mostrano i loro effetti devastanti non solo sull’ambiente circostante ma anche sulle attività di artigiani, pescatori e piccoli imprenditori che animano i territori con il loro mestiere ma che fanno fatica a resistere al progressivo incedere della pesca industriale. “La situazione è grave. Con questo ordine di prelievo, da qui a breve tempo il pesce diventerà raro quanto la carne di daino o di fagiano, al pari della selvaggina”. Ci dice Luigi Crescenzi del laboratorio artigianale Manaide di Anzio, dove produce conserve tradizionali a base di pesci sostenibili pescati nel litorale laziale: un lavoro che rappresenta un baluardo per la salvaguardia della filiera ittica di piccola scala, promossa attraverso i prodotti della sua azienda che, non a caso, porta il nome della barca a remi utilizzata fino a metà del ‘900 nel Tirreno per la pesca del pesce azzurro. “In base ai censimenti effettuati risulta che non abbiamo ancora ripristinato lo stock ittico degli anni ’70: è vero, grazie all’introduzione dei fermi pesca e quote più rigide il numero dei pesci pelagici come il tonno sta ricrescendo, ma solo per quanto riguarda gli esemplari di fascia media, che non sono quelli adatti alla riproduzione. Oltretutto – aggiunge Crescenzi – all’aspetto ambientale si aggiunge quello della salute per l’uomo”.
In che senso?
“C’è un discorso di metalli pesanti. Cadmio, piombo, mercurio, cromo sono sostanze tossiche molto presenti negli oceani particolarmente inquinati e una volta assunte rimangono nell’organismo per sempre. Gran parte dei pesci che mangiamo provengono da quelle acque: i “globetrotter” del mare come tonno rosso, pinna gialla e pesce spada, avendo una vita lunga e muovendosi da una parte all’altra del mondo fanno più incetta di metalli pesanti rispetto alle altre specie di dimensioni ridotte e meno longevi.”
Per non parlare dei livelli di istamina che si produce nei processi di degradazione del pesce a causa delle cattive condizioni di conservazione: “nei casi in cui la catena del freddo viene alterata – spiega Silvio Greco, biologo marino, consigliere del Ministero dell’Ambiente e docente presso l’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo – in molti pesci può prodursi questa sostanza tossica che non si distrugge né con il congelamento né con la cottura.” Sono dati allarmanti che mettono in serio pericolo la salute umana e tuttavia se ne sa poco o nulla. Etichette fuorvianti, pescivendoli impreparati, indicazioni di origine assenti tra i banchi delle pescherie, contribuiscono ad alimentare un’asimmetria informativa di cui diventano vittime i consumatori, spesso inconsapevoli di frequenti frodi alimentari.
Per orientarsi nell’acquisto, basterebbe attivare alcuni semplici accorgimenti: verificare la zona FAO di provenienza del pesce e informarsi sul livello di inquinamento di quel mare; scegliere specie ittiche stagionali – possibilmente locali – e, infine, accertarsi che sia venduto al giusto prezzo. “Tonno allitterato, lanzardo, alalunga, palamita rappresentano valide alternative al comune tonno in scatola – consiglia Crescenzi – si trovano facilmente nei nostri mari laziali ma purtroppo il mercato del pesce risponde a una domanda viziata da un certo tipo di comunicazione che induce i clienti sempre agli stessi acquisti e i piccoli pescatori alla pesca industriale. Nell’ultimo anno pochissimi casi sono tornati a praticare una pesca sostenibile. Però non è come in agricoltura, dove puoi seminare per raccogliere. In mare, fino ad oggi, è valsa solo la logica della predazione senza regole”.
Come possiamo fermare tutto questo? Quali strumenti abbiamo per salvaguardare il mare, il più importante serbatoio di biodiversità della terra? Se tornare a pescare con l’amo o arrestare definitivamente il consumo di pesce sembra un’utopia, non ci resta che agire attraverso scelte concrete e quotidiane come unica altra via per una pesca sostenibile.
Ogni acquisto sbagliato, toglie vita al mare bene comune: partiamo dunque dal cibo che mettiamo nei nostri piatti per attivare il cambiamento, consapevoli che non possiamo più restare muti come pesci.
Giulia Catania