Spopolano al di fuori di casa nostra i piatti tipici della tradizione italiana, specialità che di Italiano hanno a malapena il nome. Tra i più gettonati gli spaghetti with meatballs, di cui tutti ricordano la versione cinematografica nel cartone Lilli e il Vagabondo, che secondo l’immaginario collettivo sono un “classicone” nostrano, al pari dei diffusissimi spaghetti bolognesi, anche se a Bologna ancora si domandano chi li abbia inventati.
Ci sono poi le pizze con ingredienti assurdi, salame, ananas, banane, ostriche, salse BBQ, solo per citarne qualcuno. In questi anni abbiamo visto stemperare il pesto con la panna, rimpiazzare il guanciale con il bacon nella carbonara e spolverare con del parmigiano un piatto di linguine allo scoglio.
Il discorso però cambia quando si parla di contraffazione e falsificazione dei prodotti alimentari made in Italy. Questo fenomeno si allarga a macchia d’olio, producendo sempre maggiori danni alla nostra già traballante economia e, secondo le ultime stime Coldiretti, costerebbe all’Italia 300.000 posti di lavoro. Dal rapporto “Agromafie”, da Coldiretti elaborato con Eurispes nel 2013, Il fatturato del falso Made in Italy – nel solo settore agroalimentare – ha superato i 60 miliardi di euro, quasi il doppio del fatturato delle esportazioni nazionali degli stessi prodotti originali. È giunto il momento di fare pressione affinché la comunità europea stipuli degli accordi mirati con l’organizzazione Mondiale del Commercio ( WTO) prima che sia troppo tardi. Il tutto in vista anche del famigerato accordo TTIP sui prodotti alimentari Nordamericani.
Il fenomeno denominato “italian sounding” colpisce i nostri prodotti più rappresentativi – specie nei mercati emergenti, dove i falsi sono più economici – condizionando le aspettative dei consumatori e arrecando un danno d’immagine incommensurabile. Già i nomi di questi prodotti dovrebbero insospettire. Acquistare un Parma Salami prodotto in Messico, o una Mortadella Siciliana che arriva dal Brasile dimostra come l’assenza di gusto vada di pari passo con la totale ignoranza della geografia. Come si può pensare che una salsa Roman Style arrivi dalla California, il Pesto ligure dalla Pennsylvania, un condimento Bolognese dall’Estonia o un formaggio Pecorino possa essere prodotto in Cina con latte di mucca?
Denominazioni famose come Grana Padano e Parmigiano Reggiano sono anche le più copiate è scontato. Gli USA producono il Parmesan, in Brasile spopola il Parmesao, in Argentina il Regianito, solo per citarne alcuni. Ciò che è preoccupante è il diffondersi in rete di appositi Kit per la produzione casalinga dei più famosi vini italiani (vedi Barollo). Oppure come grazie ad un improbabile intruglio di pillole e polveri realizzate in tutto il mondo sia possibile produrre a casa propria una mozzarella o un formaggio in soli 30 minuti.
La moda fai-da-te ha avuto inizio proprio con i wine kit che nella sola Ue hanno portato ad una produzione stimata di circa 20 milioni di bottiglie l’anno. È inaccettabile che questi fenomeni siano tollerati, in particolar modo all’interno dell’Unione Europea stessa. Ancora più grave, che azioni come quelle dell’Interpol risultino assolutamente vane. Basta rielaborare i nomi in modo fantasioso per tornare sul mercato in tempo record. Come detto il Barolo diventa Barollo, il Cantia, che in inglese suona più o meno come Chianti, rimpiazza l’originale, Il Valpolicella si trasforma in Vinoncella e il Brunello di Montalcino lascia il posto al Monticino. Il fenomeno dell’Italian sounding esiste da anni e se non corriamo ai ripari per tutelare il nostro patrimonio agroalimentare, tempo qualche decennio tutta l’Europa potrebbe essere invasa da prodotti infimi con nomi vagamente nostrani. Il solo pensiero toglie l’appetito.
tratto da Anna Battaini (Sole24Ore)