Da sempre apprezzati per la loro capacità di saziare e fornire preziosi nutrienti, ma a lungo stigmatizzati come prodotto per poveri che non potevano permettersi la carne, negli ultimi anni i legumi sono oggetto di una grande riscoperta, anche nel Lazio. Ottimi sostituti dei prodotti di origine animale, sono alimenti che aiutano a far star bene non solo noi ma l’intero ecosistema. Per questo Slow Food attraverso campagne come Slow Meat e Aggiungi un legume a tavola e la rete Slow Beans ne promuove il consumo, per contrastare l’aumento degli allevamenti intensivi che deteriorano l’ambiente, la nostra salute e non rispettano il benessere animale.
Un po’ di storia
Il legame di storia e tradizioni della nostra regione con i legumi è nato e si è consolidato sin dai tempi degli Etruschi e dei Romani, entrambi grandi consumatori e appassionati di questi prodotti. Ai tempi dei Cesari i legumi erano un pilastro dell’alimentazione: la farina di legumi era mescolata con quella dei cereali per dare più sostanza al pane delle classi popolari ed erano alla base della dieta di legionari e gladiatori. E vale la pena ricordare che importanti e antiche famiglie romane derivarono il loro nome da legumi la cui coltivazione aveva contribuito non poco alla loro fortuna economica: la gens Fabia dalle fave, i Lentuli dalle lenticchie, i Pisoni dai piselli.
Nel Lazio sono attualmente 8 i legumi inseriti nell’Arca del gusto di Slow Food : 5 fagioli, 2 lenticchie e un cece. Piccoli tesori del gusto che si conservano grazie all’impegno tenace di alcuni coltivatori e al sostegno delle istituzioni locali.
La nascita di molte coltivazioni di fagioli nel Lazio, come nel resto dell’Europa, risale al 1500, quando dopo la scoperta della Americhe nuove varietà del legume furono importante nel Vecchio Continente, in aggiunta alle tipologie di fagioli prevalentemente di origine africana già coltivate.
I legumi laziali dell’Arca del Gusto
Proprio nel XVI secolo venne introdotta ad Arsoli (provincia di Roma) la fagiolina, il cui nome deriva dalle piccole dimensioni del legume, di color bianco, a forma di rene e di consistenza burrosa. Molto apprezzato per la sua digeribilità e perché facile da cucinare (non necessità di ammollo), la fagiolina ad Arsoli è usata per la gustosa zuppa con le ciciarchiole (quadrati di pasta fatta in casa), o viene consumato in umido con l’aggiunta di cipolle, olio extravergine di oliva, pepe nero e pane raffermo.
Sempre in provincia di Roma, nella zona di Fabrica, si coltiva il fagiolo carne, il cui nome deriva dal colore bruno che ricorda quello della carne, ma anche dal fatto che per secoli questo legume ricco di proteine è stato per i locali un prezioso sostituto della carne. Talmente prezioso per l’economia locale da essere stato utilizzato in passato perfino come moneta, è oggi protagonista della Sagra del Fagiolo Carne Fabbrichese, dove è possibile assaporare i celebri gnocchetti con “facioli” e cotiche.
Nei comuni di Gradoli, Acquapendente e Onano (provincia di Viterbo) si protegge tenacemente dalla scomparsa il fagiolo del Purgatorio, il cui nome deriva dal fatto che, a partire dal 1600, il legume (condito con sale, olio e pepe) divenne il piatto forte del cosiddetto Pranzo del Purgatorio”, tradizione del Mercoledì delle Ceneri a Gradoli. Di piccole dimensioni e di color bianco, quindi simile a un cannellino, ha oggi una produzione molto limitata e fortemente a rischio di estinzione.
Spostandoci in provincia di Frosinone, scopriamo il fagiolo cannellino di Atina. Quasi scomparso dopo gli anni ’50, perché sostituito da varietà ritenute più redditizie, grazie alla tenacia di un pugno di famiglie contadine è sopravvissuto ed è oggi in crescente riscoperta, anche grazia alla popolarità della “Pappafuocchie”, una tipica pasta e fagioli ciociara. Amante dei terreni impervi e delle altitudini, il fagiolo a pisello del lago del Turano deve il suo nome alla particolarissima forma rotonda che ricorda quella di un pisello. La sua produzione è così bassa che la vendita è limitatissima ed è praticamente disponibile solo in alcuni mercati della zona del Turano.
Come già detto, nell’Arca del gusto del Lazio troviamo anche due varietà di lenticchie. La prima è tipica di Ventotene e pare la sua coltivazione sull’isola risalga addirittura ai tempi dei romani. In passato prodotta su scala quasi industriale, oggi è coltivata in quantità limitate da alcune famiglie locali. Rarissima (il seme autoctono è oggi conservato da un solo produttore locale) e preziosa (tanto che nel 1500 il furto o il danneggiamento della pianta era punito con apposite sanzioni) è la lenticchia di Onano, ingrediente fondamentale di tipiche minestre con i quadrucci all’uovo e apprezzatissimo accompagnamento di piatti a base di selvaggina.
Da Valentano, in provincia di Viterbo, proviene l’unico cece nell’Arca del gusto laziale: il Cece del solco dritto. Il nome deriva da un’antica tradizione: ogni 14 agosto nella piana di Valentano viene tracciato un lungo solco che attraversa i campi e a seconda di come riesce più o meno dritto se ne traggono auspici sul raccolto dell’anno successivo. Questo cece è protagonista della tavola del periodo natalizio, come base per gustose zucche o mangiato in accompagnamento alle castagne.